Proprietà, comproprietà communis pro-indiviso e usucapione.

Il diritto di proprietà quale ius in re propria per eccellenza è la signoria dell’uomo sulla cosa su cui è esclusa ogni ingerenza da parte dei terzi. Per il diritto romano la proprietà in principio era illimitata, ciò determinava l’impossibilità di delimitarla con iura in re aliena (diritti minori, come quello di superficie, poi già in epoca antica ampiamente riconosciuti insieme all’elasticità come caratteristica precipua della proprietà stessa). Peculiarità caratteristiche della proprietà sono quelle dell’assolutezza in qualità di inopponibilità erga omnes, della pienezza, dell’esclusività, dell’elasticità, della tipicità, della perpetuità e dell’imprescrittibilità. Il proprietario è dunque quel soggetto che manifesta il dominio esclusivo della res uti dominus. Su questo fronte è ormai chiaro di come il diritto di proprietà sia un tra i diritti più estesi riconosciuti dal nostro ordinamento. Ma se i proprietari fossero contemporaneamente titolari della stessa res? si parla in generale di comunione, nello specifico di comproprietà.

Mentre la comunione, infatti, è la situazione giuridica che si instaura tra più soggetti contitolari di un diritto reale, la comproprietà è la signoria di più soggetti esercitata sulla stessa res communis. I soggetti comunisti che detengono il dominio sulla stessa cosa saranno dunque contitolari della stessa res rispettivamente alla loro quota pro capite.

L’articolo 1101 del codice civile disciplina le situazioni di comunione e più nel dettaglio di comproprietà. Ogni comunista, infatti, detiene una o più quote considerate dal punto di vista romanistico come ripartizione di quote ideali sul bene indiviso di appartenenza esclusiva di ciascun individuo. Infatti, la quota identifica il quantum di partecipazione del comunista al diritto. L’assegnazione di queste quote ideali, che in mancanza di previsione differente si presumono eguali, predispone il proporzionale concorso dei partecipanti sia nell’esercizio dei diritti che nella valutazione degli oneri derivanti dal diritto comproprietà.

Addentrandoci poi nei meandri del communio pro-indiviso si affronta quindi la situazione di diritto che sottende alla comunione che ha per oggetto un bene indiviso per natura o per convenzione di cui ciascun comunista detiene una quota ideale. In questo tipo di circostanza è chiaro che il godimento del bene spetta in maniera eguale a tutti i comproprietari, i quali però incontrano limiti come quello della destinazione della res, il diritto di farne pari uso, e di non alterarne la destinazione. È necessario, dunque che i comunisti siano d’accordo a gestire congiuntamente la res communis secondo diverse modalità. Per tutti gli atti di ordinaria amministrazione è sufficiente la maggioranza semplice, differentemente per gli interventi di straordinaria amministrazione per cui è necessaria la maggioranza qualificata. Per determinati atti specifici come la locazione per nove anni o atti di alienazione o per atti di costituzione di iura in re aliena è necessaria invece l’approvazione unanime dei comunisti.

In merito alla comproprietà indivisa è lecito, perciò, chiedersi se sia o meno possibile che uno dei comunisti, a fronte della totale inerzia degli altri comproprietari possa acquisire a titolo originario la res originariamente in comproprietà. È bene precisare che se ogni comunista potesse esercitare il diritto ab integrum della res communis, sarebbe controproducente ammettere legalmente l’acquisizione a titolo originario del bene indiviso per il solo fatto di utilizzarla. Difatti, l’utilizzo completo della cosa comune fa parte della disciplina stessa del communio pro-indiviso, ogni comunista può utilizzare la res nella sua totalità senza peraltro diventarne l’unico proprietario in quanto l’esercizio della signoria del comunista sulla res è da intendersi uti condominus. Per questo si fa riferimento all’utilizzo della cosa comune senza legittimarne l’acquisizione della stessa ad usucapionem.

Gli Ermellini, ad ogni buon conto, confermano che per l’acquisto a titolo originario non è sufficiente che il comunista utilizzi la res uti condominus, perché il mero utilizzo della cosa comune con le limitazioni della comunione non legittima il possessore ad acquisirne la piena proprietà a scapito degli altri comproprietari che semplicemente tollerano le ingerenze degli altri comunisti perché previsto dal regime stesso della comunione. Al fine, dunque, di acquisire la proprietà esclusiva a scapito degli altri comproprietari è necessario accertare l’esercizio esclusivo della signoria sulla res communis come se la cosa fosse di proprietà del solo soggetto che la sta esercitando uti dominus. La cosa dapprima in comune deve essere utilizzata a tutti gli effetti in maniera esclusiva, durevole ed incompatibile con l’esercizio dell’altrui possesso sulla cosa. Posto che il diritto di ogni contitolare si estende sull’intero, l’esercizio del potere uti condominus, ancorchè continuativo e durevole risulta incompatibile con l’acquisto ad usucapionem del bene originariamente in comune. (Ordinanza della Corte di Cassazione n. 30765/2023).

​Guttae Legis

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